Banche, il risiko italiano

L’analisi di Angelo Drusiani

di Angelo Drusiani

PERUGIA – Quante volte, nella mia mente, sono tornato alle strofe dell’Atto terzo tratto dal Coro dell’Adelchi di Alessandro Manzoni. Mi capita ogni volta che un’azienda italiana accende l’interesse di una concorrente estera. In questo caso, pur non essendo successo ancora alcun cambio di proprietà, Crédit Agricole, il secondo gruppo bancario francese dopo Bnp Paribas, è entrato nel capitale del lombardo Banco BPM. E’ di venerdì scorso l’annuncio dell’acquisizione, da parte della Banca francese, di una partecipazione pari al 9,18% del capitale della Banca milanese.

L’investimento viene valutato in circa 350 milioni di euro. Che Banco BPM fosse al centro dell’attenzione di realtà di dimensione maggiore era arcinoto. Ma si pensava alla possibilità che Banche del nostro Paese ad esserne interessate. Anche perché Credit Agricole era interessato, pochi mesi fa, ad entrare in Carige, l’ex Cassa di Risparmio di Genova e Imperia. Finita poi alla Banca Popolare dell’Emilia Romagna. La stessa Banca francese, ora Credit Agricole Italia, ha già acquisito altre ex Casse di Risparmio in Romagna, Toscana e Liguria. Si consolida, con l’investimento in azioni del Banco BPM la strategia che vede le due Banche operare nel credito al consumo attraverso Agos, in cui la Banca lombarda è titolare del 39% delle azioni, mentre il restante 61% è in mano di Crédit Agricole Italia. Il cosiddetto risiko bancario italiano, che gradualmente dovrebbe dar vita al cosiddetto terzo polo per dimensioni, costituito da un gruppo di Banche con raccolta di capitali ed estensione territoriale, si è rimesso in moto. Anche la citata Banca Popolare dell’Emilia Romagna è stata più volte indicata quale ipotetica organizzatrice del terzo polo stesso, ma, al momento, né quest’ultima e neppure il citato Credit Agricole Italia se ne sono fatte carico.
I bello di questo insieme di fusioni ipotetiche, di acquisizioni di quote azionarie è che il comparto azionario del nostro Paese brinda ai rialzi dei valori di scambio. A Piazza Affari un’ipotetica competizione per assurgere alla medaglia di bronzo del citato risiko, dopo Banca Intesa San Paolo e Unicredit, scalderebbe il cuore pulsante anche di grandi gruppi internazionali. Non tanto per far parte dell’azionariato, o forse anche sì, quanto per investire somme di tutto rispetto, al fine di trarne benefici, in materia di future plusvalenze. Un termine, in verità, un poco desueto in questa fase dominata dai timori sollevati dall’incremento del tasso d’inflazione nell’emisfero occidentale del globo. E dalla vicenda bellica nell’estremo oriente dell’Unione Europea. Vicende, ambedue, ma soprattutto la prima, che hanno rotto l’incantesimo creato dall’impetuoso sviluppo e dalla crescita incontrastata di utili e valori di scambio delle aziende tecnologiche statunitensi, soprattutto. Ma, in parte, anche made in China. Sarà da questo comparto produttivo che si ripartirà, una volta che la Federal Reserve avrà fissato il valore del tasso di riferimento al 2,25%, entro fine anno, con una serie di rialzi dell’attuale livello, 0,25%, seduta dopo seduta del FOMC, l’Organo a stelle e strisce che fissa, via via nuovi valori dello stesso ex tasso di sconto, o ne conferma quello in essere. Certo, è strano ipotizzare una ripartenza dei mercati azionari, nel momento in cui le Banche Centrali daranno vita ad una politica monetaria restrittiva, ma non si può non guardare al futuro del globo, pensando che, d’improvviso, la locomotiva abbia abbandonato le carrozze a se stesse. Non è e non sarà così. Anche se, non illudiamoci, ci vorrà pazienza. Come dire “Calma e sangue freddo”, perché è con questa tenacia, con questa convinzione che si deve pensare al domani. Peraltro, se una grande Banca d’oltr’Alpe guarda al nostro Paese, perché non dovremmo farlo noi?

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