«Chi soffre davvero non ha tempo. Ha bisogno di uno Stato che lo guardi negli occhi. E non si giri più dall’altra parte»

L’europarlamentare Fdi Marco Squarta e il dibattito su malattia e fine vita. «Non sono favorevole all’eutanasia, ma una sentenza ci interpella tutti»

PERUGIA – Dopo due post – (qui) e (qui) – sulla morte per suicidio assistito di Laura Santi, il primo in Umbria, Marco Squarta prosegue ad accendere il dibattito su malattia ed eutanasia. Si dice ovviamente contrario, ma invita alla riflessione sulla sentenza della Corte costituzionale che ha aperto la strada ai casi come quello di Santi.

Di seguito, l’ultimo post dell’europarlamentare di Fdi Marco Squarta

Avete mai pensato cosa significhi vivere da sveglio dentro un corpo che non risponde più?
Aprire gli occhi la mattina e non poter muovere un dito, non poter parlare, non poter chiedere aiuto, e sapere che sarà così anche domani, dopodomani, per mesi, per anni?
Avete mai incontrato negli occhi di qualcuno la consapevolezza che il suo dolore non finirà, e che ogni respiro è una prova, ogni giornata un confine tra resistenza e disperazione?
Immaginate, solo per un istante, di essere prigionieri dentro voi stessi, lucidi, presenti, ma condannati. È la realtà quotidiana di molti malati di SLA. Ma la SLA è solo un esempio, tra i tanti.
Esistono altre patologie, spesso meno note, più silenziose che portano con sé condizioni ancora più estreme.
Dolori costanti, perdita totale di autonomia, sofferenze fisiche e psicologiche che nessuna terapia riesce più ad alleviare.
È una realtà che in pochi conoscono davvero, eppure riguarda centinaia di persone nel nostro Paese.
È troppo comodo giudicare dal divano di casa, con la salute intatta e la vita che scorre.
Troppo facile trasformare il dolore in uno scontro ideologico, quando non si è mai vissuta davvero la sofferenza.
E invece oggi, proprio oggi, il Parlamento ha il dovere di affrontare questo tema. Senza paure. Senza fanatismi. Con umanità.
Non sono favorevole all’eutanasia, e non cambio posizione. Ma c’è una sentenza della Corte Costituzionale, la n. 242 del 2019, che ci interpella tutti, e che indica chiaramente che, in casi estremi, la punibilità di chi aiuta a morire può venire meno.
Ma solo se ci sono quattro condizioni ben precise:

  1. Una patologia irreversibile.
  2. Sofferenze fisiche o psicologiche intollerabili.
  3. Capacità piena di intendere e volere.
  4. Mantenimento in vita da trattamenti di sostegno vitale.

    La Corte ha fatto il suo. Ha aperto una strada stretta, non pericolosa, non ideologica, ma giusta. Ora tocca a noi. Togliere dall’ombra queste storie. Dare risposte serie, umane, costituzionalmente fondate.
    Perché chi soffre davvero non chiede privilegi, ma rispetto. Non chiede clamore, ma dignità.
    E noi non possiamo più restare in silenzio.
    Non è una battaglia politica. È il modo in cui uno Stato guarda ai suoi figli più fragili.
    Si può e si deve intervenire, con equilibrio e responsabilità, per tutelare chi oggi si sente invisibile.
    Io credo che si possa fare, si debba fare.
    Credo che chi ha fede, chi non ne ha, chi la pensa diversamente, possa almeno condividere questo, che di fronte al dolore autentico, non si combattono battaglie ideologiche. Si ascolta. Si accompagna. Si agisce.
    Perché chi vive il dolore estremo non può aspettare il prossimo governo o il prossimo equilibrio politico.
    Chi soffre davvero non ha tempo. Ha bisogno di uno Stato che lo guardi negli occhi. E non si giri più dall’altra parte.
    È il momento. Per chi non può più dirlo. Per chi resiste. Per chi ci sta mostrando, senza volerlo, cosa significa davvero essere umani.

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