Giuseppe Croce – Sapienza Università di Roma
TERNI – La vicenda urbana di Milano oggi al centro dell’attenzione pubblica offre un punto di osservazione utile a capire anche gli affanni delle maggiori città umbre. L’una e gli altri sono in realtà, nelle loro determinanti strutturali, due versanti della stessa storia. Le traiettorie di crescita o di declino delle città, al di là delle specificità di ognuna di esse, vanno lette all’interno delle grandi trasformazioni dell’economia e della società.
Fino agli anni Novanta del secolo scorso le economie avanzate erano caratterizzate da un’estesa quota di posti di lavoro mediamente qualificati, nel terziario privato e pubblico e nell’industria, destinati a una classe media altrettanto ampia e in crescita. Quei posti di lavoro erano spalmati nella rete delle città italiane, non solo in quelle più grandi ma anche in quelle di media dimensione, a partire dai cento e oltre capoluoghi di provincia. I servizi si distribuivano sul territorio a servizio della popolazione che lì risiedeva. Commercio, professioni impiegatizie ma anche parte di quelle operaie, attività artigianali nelle attività di manutenzione e riparazione, le banche, le libere professioni, istruzione e sanità, le amministrazioni pubbliche locali e quelle decentrate costituivano l’ampia base occupazionale della classe media delle città, una base strettamente legata al territorio dove la popolazione risiedeva. Al di fuori del triangolo industriale del Nord-Ovest, in molte regioni un’industria diffusa e prevalentemente di piccole imprese generava una sua domanda di servizi, anch’essi localizzati nelle città medie. In alcuni periodi è stata intensa l’emigrazione verso le città più grandi ma si trattava prevalentemente di un flusso in uscita dalle aree rurali e comunque la generale crescita demografica manteneva i saldi demografici delle città medie in territorio positivo. A partire dagli anni Novanta si sono succedute e sovrapposte diverse trasformazioni e crisi – deindustrializzazione, globalizzazione, computer e Internet, la grande recessione iniziata nel 2008 e, più di recente, il Covid – che hanno trasformato il modo di produrre, lavorare e consumare.
L’effetto complessivo di tutto ciò è stato una progressiva erosione di quella che era la base occupazionale dominante della fase precedente, quella dei posti di media qualifica e medio reddito, che identificavano la classe media. L’assottigliamento della classe media ha lasciato il posto a una polarizzazione della struttura professionale. In alto le professioni altamente qualificate, sospinte dall’innovazione, ad elevato capitale umano e meglio retribuite, e verso il basso i lavori un tempo a media qualifica e ora resi obsoleti e impoveriti dalle trasformazioni in atto, più una vasta ed eterogenea area di lavori e lavoretti di servizio, a bassa produttività e mal retribuiti.
La polarizzazione occupazionale ha prodotto a sua volta una polarizzazione nella distribuzione dei posti di lavoro sul territorio. Se prima i posti si distribuivano in modo proporzionale alla popolazione residente, con un addensamento nelle città medie, nella fase attuale sono più forti le spinte verso una polarizzazione tra alcune città grandi e il resto dei centri urbani. Da una parte poche grandi città capaci di attrarre le persone più qualificate, dall’altra il resto delle città medie e anche grandi che subiscono un deflusso dei più istruiti e giovani. La capacità attrattiva delle prime genera i vantaggi derivanti dall’agglomerazione in una stessa grande area urbana di imprese e lavoratori istruiti e produttivi. L’agglomerazione, infatti, dà luogo a una densità di relazioni e interazioni vantaggiose per coloro che vi prendono parte, spingendo l’innovazione, la crescita dei redditi e quindi rinforzando la capacità attrattiva di queste aree urbane che come un magnete attirano persone, capitali, imprese. Questa crescita, però, finisce per creare squilibri a partire dal mercato immobiliare, con i prezzi e gli affitti delle abitazioni e, a cascata, dei servizi, che lievitano fino a strangolare quello stesso processo di crescita e a creare disuguaglianze sociali che colpiscono e impoveriscono ciò che resta della vecchia classe media. Questa traiettoria descrive, per sommi capi, la vicenda di Milano, la città italiana fino a poco fa più attrattiva, nella quale una fase di crescita e di successo, pur all’interno di un contesto economico stagnante come quello italiano, ha finito per arrivare più di recente a quello che sembra il suo capolinea, indipendentemente dagli aspetti giudiziari che sono solo un aspetto che aggrava questo esito.
Tutte o quasi le altre città, sono quelle che soffrono il deflusso di popolazione. Ma insieme alla fuga di parte dei giovani più istruiti, esse registrano anche la perdita di posti di lavoro che un tempo erano ‘naturalmente’ legati al territorio e alla popolazione lì residente. Già negli ultimi decenni e poi in modo accelerato dal Covid, si è spezzato il legame tra attività di servizio e popolazione per effetto delle nuove possibilità di fornitura di servizi online: quote crescenti di scambi e interazioni nel commercio, nelle banche e nelle assicurazioni, e in molti altri servizi si sono trasferiti nei canali online. Questo si traduce in un ulteriore dimagrimento delle attività un tempo appannaggio della classe media nelle città di media dimensione. L’invecchiamento generalizzato della popolazione, più grave nelle città dalle quali i giovani tendono ad andar via, spinge ulteriormente questo processo di impoverimento della struttura economica e sociale.
Questa è, sia pure per grandi linee, a cui certamente andrebbero aggiunte le specificità di ciascuna di esse, una descrizione della traiettoria seguita dalle città umbre, in particolare Perugia e Terni, negli ultimi due o tre decenni e la cornice nella quale si svolge il loro declino. La struttura occupazionale tende a schiacciarsi verso il basso, lo spazio un tempo occupato dalla classe media di lavoratori viene riempito da una quota crescente di pensionati, i redditi medi calano, la domanda di servizi locali si indebolisce e con essa le opportunità di impresa.
Potremmo dire, con una sintesi neanche troppo forzata, che se in passato i posti di lavoro seguivano la popolazione oggi è la popolazione, almeno quella istruita, a essere molto più mobile e a inseguire le occasioni di lavoro. È una dinamica, questa, che può essere letale per molte città, sicuramente per quelle umbre. Dentro questa cornice si spiega non solo il declino economico ma anche gli umori dell’elettorato che si manifestano con l’affermazione, così evidente in Umbria e a Terni in modo particolare, delle istanze populiste. Se questa è la dinamica degli ultimi decenni, è a partire da questo stato dei fatti che vanno cercate le vie di uscita e i percorsi di rilancio per le città umbre. Ognuna di esse deve provare a rinnovare e valorizzare i suoi punti di forza e le sue potenzialità. Il cuore della sfida, sul terreno economico, sta nel creare nuovi spazi per attività ad alto valore aggiunto per resistere allo schiacciamento verso il basso.


