La cucina italiana patrimonio immateriale dell’UNESCO: ma di quale cucina stiamo parlando davvero? 

È questa la domanda che andrebbe posta, prima ancora di celebrare una nomina che rischia di trasformarsi più in un fenomeno mediatico che nel riconoscimento di una base culturale viva e condivisa

DIEGO DIOMEDI

Se la cucina fosse cultura, allora dovrebbe raccontare un sistema di valori, di saperi tramandati, di relazioni sociali e di rispetto per il lavoro. Eppure, osservando ciò che accade oggi nelle cucine italiane, il quadro appare ben più complesso e contraddittorio. Chi lavora realmente dietro i fornelli? Sempre più spesso si tratta di persone sfruttate, provenienti da un’immigrazione importante non solo nei numeri ma anche nel peso sociale, inserite in un sistema che raramente prevede vere logiche di integrazione, formazione e tutela. Può una cucina che si regge su queste condizioni essere considerata patrimonio culturale senza interrogarsi sulle sue fondamenta etiche?

C’è poi la questione della narrazione gastronomica, ormai dominata da slogan, semplificazioni e mode. Prendiamo uno dei simboli assoluti: la carbonara. Oggi si parla con disinvoltura di “carbo-crema”, di reinterpretazioni che diventano standard, mentre si continua a evocare i “nonni” come garanti di una tradizione che, nei fatti, viene spesso tradita. Eppure, basterebbe aprire il ricettario di Ada Boni, vera bandiera della cucina italiana, per scoprire che quelle preparazioni erano diverse, più sobrie, figlie di un contesto preciso e di una cultura domestica lontana dalla spettacolarizzazione attuale. Se la tradizione viene continuamente riscritta per esigenze di mercato o di visibilità, cosa stiamo davvero tutelando?

Il discorso si fa ancora più spinoso quando si osserva il clamore attorno ai prodotti a marchio, come IGP e simili. Marchi nati per proteggere un legame tra territorio, materia prima e sapere artigianale, ma che spesso oggi convivono con filiere opache. Come spiegare al consumatore che prosciutti di Norcia possono essere prodotti con carne che arriva da fuori Italia? O che la celebre bresaola, simbolo di un territorio e di una cultura alpina, utilizza frequentemente materia prima estera? Il marchio diventa così un’etichetta rassicurante (ma di cosa?), più che una garanzia culturale.

Di fronte a tutto questo, la nomina UNESCO rischia di apparire come una consacrazione di facciata. Un grande contenitore capace di assorbire tutto, senza distinguere tra cultura e fenomeno, tra memoria e marketing. La cucina italiana è davvero ancora un patrimonio condiviso, fatto di conoscenze diffuse e pratiche quotidiane, o è diventata un prodotto da esportare, raccontare e vendere, anche a costo di snaturarsi? Forse il vero interrogativo non è se la cucina italiana meriti o meno il riconoscimento UNESCO, ma se siamo disposti a fare un’analisi onesta di ciò che oggi chiamiamo “cucina italiana”. Senza questa consapevolezza, il rischio è che il patrimonio immateriale resti solo una bella etichetta, buona per i comunicati stampa, ma sempre più lontana dalla realtà culturale che dovrebbe rappresentare.

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