di Marco Brunacci
Cosa c’è ancora da dire sul Caso Meredith?
«Su questa vicenda e sull’esito sconcertante è caduto ormai il silenzio, ma questa storia non può essere dimenticata, perché il vulnus che l’ordinamento ha subito dall’ultima decisione è irreparabile e ci tormenterà e mi tormenterà negli anni, perché il cerchio è rimasto aperto e non si è ricomposto».
A dirlo è Giuliano Mignini, il Pm che si è battuto per anni per trovare la verità sulla tragica morte di Meredith Kercher e ha pagato un prezzo, fatto di attacchi, pesanti fino a essere diffamatori, alla sua persona.
Con lui ha pagato un prezzo altissimo la città di Perugia. Moneta sonante. Migliaia di studenti che non sono tornati. Università in crisi. Un’immagine calpestata senza che ci fosse un limite.
Ma il caso Meredith non è chiuso. Lo dice Rudy Guede, l’unico condannato per quella terribile morte, che, pur con le sue storie spesso contraddittorie, afferma che c’erano altre due persone sulla scena del delitto.
Ma lo dice anche la sentenza che pure ha posto la parola fine ma che è “sconcertante” – ci tiene a sottolineare Giuliano Mignini, oggi consulente della commissione parlamentare antimafia e impegnato anche in un altro caso aperto, quello del mostro di Firenze – per motivi prima di tutto tecnici. La Cassazione ha cancellato la condanna senza rinvio. Non ha quindi “giudicato” la sentenza, come vuole la giurisprudenza e tutta la dottrina, bensì ha detto la sua sui fatti.
Non a caso Mignini, che ripropone oggi quella vicenda sua personale, di tutta una città e dei quattro giovani protagonisti, nel suo libro appena uscito dall’editore Morlacchi, “Caso Meredith Kercher. Una vicenda tra due continenti”, afferma senza tema di smentita che le sentenze di Cassazione in realtà sono due: una che conferma la condanna e l’ultima in ordine di tempo che, sorprendentemente, non interviene con il rinvio, come sempre succede, ma determina l’assoluzione degli imputati, senza modo di riconsiderare i fatti.
Ma il libro di Mignini è soprattutto un pezzo di storia, la città sbattuta in prima pagina, i pregiudizi e la disinformazione, le difficoltà culturali a comprendersi, tra due continenti, come recita il titolo. Gli inglesi contro gli americani. Gli italiani stretti in una morsa di preconcetti e di ignoranza.
Ma dietro a tutto questo – e nessuno ne parlerà mai abbastanza – c’è l’iniziativa («legittima e del tutto comprensibile», dice lo stesso Mignini) del padre di Amanda Knox di affidare a una società di Seattle, specializzata nella cura dell’immagine, la vicenda di sua figlia. Per cui, a un certo punto, si è assistito, sicuramente non per volontà di inquirenti che sono stati sempre seri, a narrazione che si opponeva a narrazione, una battaglia tra storytelling diversi. Non più fatti, prove concrete, ma profili psicologici. Immagine.
Amanda a un certo punto diventa la strega, e Mignini, altrettanto inopinatamente, eccolo nel ruolo di Bernardo Gui, l’inquisitore de “Il nome della rosa”.
E questo perché? Proprio per dare il via libera alla battaglia delle rispettive immagini. Fino al ribaltamento che è risultato vincente: Amanda finisce per diventare la brava ragazza americana, libera e perseguitata da una cultura gretta, così tanto europea.
Non si sa se nelle aule di tribunale si riparlerà mai di questa storia. Di sicuro se parlerà ancora tanto per capire cosa è successo. I fatti e la narrazione dei fatti e anche l’immagine che ne è seguita, e come Perugia abbia potuto esserne travolta.
Intanto il libro di un protagonista limpido e narratore esemplare come l’ex pm Giuliano Mignini, che ha lasciato la magistratura che era alla Procura generale, va letto come un appassionante capitolo della storia di una città e di una generazione. Da non perdere.